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Inclusività eccessiva… ora basta!

Tanto tempo fa, dedicai un post articolato con vari esempi su come l’inclusività omosessuale nel cinema e nella tv avesse travalicato il confine del buon senso. Oggi ci ritroviamo a parlarne perché non si è superato una limes, ma sta avvenendo una vera e propria invasione, aggiungerei isterica, che non porterà a nulla di buono. Chi vi parla, sin dai primi anni ottanta ha ballato e cantato le canzoni di noti omosessuali quali i Bronski Beat, Frankie Goes to Hollywood, Pet Shop Boys, Elton John, Freddy Mercury, George Michael e più di recente dei Scissors Sister. Della serie… ma che me frega se questi artisti sono dell’altra sponda. La loro arte mi piace un botto e la ballo ancora oggi. Ciò nondimeno ero una delle poche persone che nei primi anni novanta si guardava senza alcun dilemma esistenziale quei primi e timidi film indipendenti in cui se ne parlava apertamente. Della serie… il film è bello? E allora, chi se ne frega. Li riguarderei ancora una volta.

Se fino a trent’anni fa, il tema dell’omosessualità era un tema scottante, però le storie lo affrontavano con coraggio ed una straordinaria dose di quella delicatezza e sensibilità che in questo momento storico, manca totalmente. Negli ultimi anni, l’inclusività è diventata una parola chiave nei programmi di intrattenimento, sia nella televisione che nel cinema. La rappresentazione accurata e rispettosa delle diverse identità e comunità è senza dubbio un obiettivo importante, ma negli ultimi tempi si è esagerato. C’è chi crede, ed io lo penso seriamente, che l’inclusività sia diventata una trappola invadente, un clamoroso boomerang, portando a una sovra-rappresentazione che rischia di intaccare la qualità e l’autenticità delle storie raccontate. Porterò alla vostra ttenzione alcuni nuovi esempi concreti. Prima di analizzare i punti critici, è fondamentale riconoscere l’importanza dell’inclusività nei programmi di intrattenimento; non è sbagliato inserirli, poiché può aiutare a rompere gli stereotipi dannosi, promuovere l’empatia e creando un senso di appartenenza per le persone che solitamente vengono ignorate o marginalizzate nei media tradizionali.

Tuttavia, l’inclusività a tutti i costi sta diventando soverchiante ed è sfuggita di mano. C’è una preoccupazione crescente che, al fine di soddisfare le richieste di rappresentazione di tutte le minoranze, si stia sacrificando la coerenza narrativa e si stiano introducendo personaggi e storie solo per soddisfare una quota. Ciò ha già portato alla creazione di personaggi poco sviluppati o peggio, stereotipati, che non contribuiscono effettivamente alla trama o alla qualità del prodotto finale. Tutta questa eccessiva attenzione riservata a determinati gruppi sta generando una sorta di discriminazione inversa. Ciò potrebbe portare a una sensazione di disuguaglianza per il pubblico che si sente escluso dalla rappresentazione di sé stesso o delle proprie esperienze di vita.

L’autenticità delle storie:

Un altro aspetto critico riguarda l’autenticità delle storie raccontate. L’inclusività dovrebbe essere integrata organicamente nella trama e non semplicemente inserita a forza per soddisfare un requisito. Ho avuto modo di leggere di come alcuni giornalisti sostengano che quando gli autori si sentono obbligati a includere determinati personaggi o temi solo per dimostrare l’inclusività, il risultato finale può apparire falso e forzato, danneggiando la credibilità e la qualità dell’opera.

Tutto ciò è dirompente poiché stiamo discutendo di una moda dilagante, perché tale si tratta, del politicamente corretto, dell’inclusività a tutti i costi, giungendo alla vivisezione e allo smontaggio sconsiderato di storie già consolidate invece di scriverne di nuove. Una cazzata che non capiscono a Hollywood in virtù di alcuni clamorosi flop, e che ha già portato diverse major a ripensare allo sviluppo dei propri film. L’ultimo insuccesso è Elemental della Pixar, che se pur parlando di inclusività, ho visto con piacere e che francamente, a parte un leggero appiattimento nei personaggi, lontano anni luce dalla sua età aurea, non è da meno rispetto a vari altri film. In realtà è bene precisare che grazie al passaparola il film sta diventando un poco alla volta un successo a scoppio ritardato. Luca, cartone animato del 2021 della Pixar non parla per nulla di omosessualità, ma di una grande amicizia. Bene, c’è chi ha deciso di stravolgerne la storia etichettando l’amicizia in un altro senso. Come se una splendida amicizia fra due uomini o due donne si debba necessariamente tramutare in qualcos’altro. Questi esempi si tramutano in una spinta verso il fondo.

Non resta che pensare che le major hollywoodiane siano ostaggio di contratti e pretese sindacali. Non vedo nessun’altra spiegazione a questa follia e vari attori e sceneggiatori si sono già espressi con durezza su questa moda, seguita alla dichiarazione che da ora in poi l’associazione che assegnerà i premi oscar, darà più risalto all’inclusività invece che alla qualità. Lo ripeto: UNA FOLLIA. Ho già espresso con furore lo sdegno per alcune delle più recenti premiazioni e questa novità; mi da ragione che siamo difronte ad una discesa nel ridicolo. Ad un autentico suicidio fluido e morale.

Oggi come oggi serie tv come Scrubs, Friends, Miami Vice, Twin Peaks non potrebbero esistere senza scandalosi stravolgimenti nella trama e nei personaggi. Le recenti serie tv come Star Trek Discovery, Girlboss, Another Life sono un evidente fallimento di questa politica, costringendo gli sceneggiatori, quasi con prepotenza, ad inserire personaggi e situazioni omosessuali o fluide; il risultato è davanti a tutti privandoli di un’anima autentica, di un’analisi psicologica nei personaggi, arrivando a far detestare una parte della fan page di Star Trek i giovani Adira e Grey, un intramezzo noiosissimo e privo di pathos. La colpa non è di Star Trek ma di chi scrive le storie con una pistola puntata sulla tempia. Poi non parliamo di Another Life, di una bruttezza disarmante.

Il nuovo film di Biancaneve, di prossima uscita, ha riacceso la polemica, eliminando i nani per evitare che questi si sentissero derisi. A parte che esistono vari film dove i sette nani sono stati re-inventati, vedere la nuova Biancanese, che da bavarese si è trasformata in una sudamericana con alcuni nani trasformati in gender fluid… ma veramente, era proprio necessario? Ma risulta così complicato generare nuove storie anche con l’aiuto delle intelligenze artificiali? Nell’ultimo di Cenerentola, disponibile su Amazon Prime, la Madrina non è solo un uomo di colore ma perdipiù… sì, avete capito. MA PERCHE’? E difatti il film è stato un disastro su tutti i fronti, massacrato dalla critica e dal pubblico. Non è solo colpa della “madrina” ma dell’intero stravolgimento della favola. Ma chissa come mai è stato deriso! Più di recente il film in live action tratto dal cartone animato della Sirenetta ha generato ulteriore malumore poiché da bianca con i capelli rossi (ricordiamoci che è un personaggio fiabesco ambientato nell’europa del nord), è diventata mulatta. Mi dicono che il film sia bello e non avendolo visto non posso giudicarlo. Resta il problema del ridicolo poiché si innesca un circolo vizioso che non farà altro che aumentare l’omofobia, non la fermerà.

Altro esempio di una bella storia con del potenziale, buttato via nel ridicolo, ulteriormente bistrattato da con una continua sequela di personaggi femminili che si rivelano lesbiche. Parlo di Chick Fight, gradevole commedia con Alec Baldwin e Malin Akerman. Invece di parlare di emancipazione femminile, precipita negli stereotipi trasformando una gradevole commedia in un film dimenticabile. Ecco, questo esempio mi parla di una storia che probabilmente era originariamente scritta con arguzia e coraggio, per poi venire devastata da pretese sindacali o da terze mani.

Ora arriva il mio affondo: poiché penso che non ci sia persona peggiore di quelle che a mio parere, lo ripeto, è un mio parere personale, si dichiarano THEN o qualsiasi anomalia emotiva e psicologica possa comportare riflettersi con un NULLA. O sei donna che vai a donne, o sei un uomo che va con altri uomini, e dichiararsi neutro non ha alcun senso, se non in un disturbo psichiatrico della personalità. Poi si incontrano coloro che osannato al Che Guevara come idolo per i diritti dei più deboli (visto realmente tempo fa ad una manifestazione per Milano sui diritti degli omosessuali), rei che il loro eroe è stato un ferocissimo persecutore di artisti, intellettuali e… no, non può essere! Ha veramente torturato gli omosessuali, rinchiudendoli nei campi di rieducazione? Eh già, così ci dice la storia. Eppure c’è chi maldestramente lo associa alla bandiera arcobaleno.

Le nuove regole ad hollywood costringono le aziende ad assumere un X numero di persone, precludendo la metà di chi non ne fa parte. E come ha detto una sceneggiatrice: da domani sono disoccupata! È veramente necessario copiare stile e mode provenienti dal made in Usa? Siamo veramente certi che sia un bene?

Non se ne può fare a meno? Eppure ci sono dei film non belli, di più, che trattano questo tema con forza e sensibilità. Il titolo che mi viene in mente è CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino. Film del 2017, l’ho apprezzato così tanto da averlo rivisto già tre volte. Quindi queste storie ci sono, esistono e sono nuove. Forse non piaceranno a tutti, ma del resto anche il genere horror è schifato da molti spettatori, ma ha il suo seguito. La mia domanda, la domanda che mi faccio e che forse anche voi ponderate e fino a che punto si spingerà il pedale su questa pericolosa china? Non è sbagliato parlarne, ma è sbagliato abusarne. A voi la parola.

AI WAR, il diritto d’autore sull’arte generata dall’intelligenza artificiale

Potrebbe essere il titolo perfetto per un film distopico o di fantascienza, eppure l’avanzamento della tecnologia quantistica da una parte e le sempre più forti interazioni con la macchina, stanno generando un dibattito acceso e a tratti costruttivo perché impone e ci impone ad una riflessione seria sui mutamenti di questa nuova rivoluzione. Un cambiamento così sovversivo da generare prese di posizioni molto nette. Hollywood per esempio si è parzialmente genuflessa a sua maestà Netflix, lasciandosi condizionare invece di combatterla per riportare gli spettatori al cinema. Netflix, Amazon Prime, Disney + e le altre piattaforme in streaming hanno rivoluzionato il mainstream d’intrattenimento, con molti benefici, ma anche molti problemi: volete metterci la bellezza di un film sul grande schermo piuttosto che a casa?

Con l’intelligenza artificiale stiamo giungendo ad un nuovo rinascimento (e mi ricollego in modo negativo al declino umano difronte all’avanzata delle macchine in Animatrix). Lasciando perdere le fantasie, una verità alla nostra portata è che sempre più illustratori, grandi artisti e registi di fama mondiale come Gulliermo del Toro o il maestro Miyazaki si sono detti inorriditi, affermando che: “L’animazione creata dall’IA è un insulto alla vita“. Così ha chiosato Miyazaki, ripetuta successivamente da Del Toro. Nel precedente post, mi sono posto degli interrogativi sul suo fine ultimo, in primis al fine di ragionarci sopra e per intercettare quelle che sono le idee delle persone o degli amici in proposito. Se pur accennati, la questione che sta emergendo in modo preponderante in queste settimane è la seguente: a te, sviluppatore di AI art, chi ti ha dato l’autorizzazione per usare i miei lavori e renderli disponibili con modifiche più o meno evidenti? In poche parole, io non ti ho concesso l’autorizzazione, perciò, o mi paghi una commissione o la smetti di plagiarmi o ti faccio causa.

Vediamo dunque come stanno reagendo vari siti a questa rivolta. Partiamo con Pixiv, il sito online giapponese, che mette a disposizione uno spazio per i propri lavori. È notizia recente la sua decisione di inserire un tag al fine di individuare o filtrare proprio questi lavori a dispetto di quelli tradizionali. Vi ricordate di NovelAI? Ma sì, ve ne ho parlato proprio la volta scorsa! Saprete che fornisce una pagina per la creazione di immagini dallo stile manga. Ebbene sto apprendendo che sommersa dalle polemiche, NovelAI potrebbe eliminarlo a breve (al momento che revisiono il testo, gennaio 2023, non mi pare sia stato eliminato). Motivo delle sfuriate? Semplice, l’AI prende i lavori fatto dai veri disegnatori/illustratori e li riadatta per i nuovi utenti. Il risultato è stata una sequela di accuse per plagio. Anche per un altro programma citato nei miei precedenti post come Dall-E, sono giunti alla scelta di eliminare la modalità manga. Però se entro in Wonder, l’opzione per la generazione di illustrazioni anime, è ancora disponibile. Insomma, da questo gran polverone, i giapponesi sono in prima linea per non vedersi sottratto il dominio incontrastato nel mercato dei fumetti. Proprio perché, come accennai precedentemente, queste applicazioni sono così straordinarie che possono generare, tavola dopo tavola, un vero fumetto: questo senza saper minimamente disegnare.

E qui entriamo nella questione dei diritti d’autore. Come per le criptovalute, non ci sono regole esplicite che limitano l’operato di alcuni soggetti. I giapponesi ci tengono alla propria etica artistica e preferiscono seguire un fumetto creato dalla fantasia di un artista, piuttosto che da una macchina. Penso che a breve, scenderanno in campo anche gli illustratori americani delle due più famose catene comics come la Marvel e la DC (ma credo che la Disney non starà a guardare) per evitare che si creino appropriazioni indebite e violazioni del copyright del proprio lavoro. Era una questione postami proprio durante la stesura sull’intelligenza artificiale fra gli scrittori e cioè dove ci si pone eticamente e quanto sia lecito usare in toto un’intelligenza artificiale per svolgere un proprio lavoro. La soluzione resta quella in un uso appropriato e consapevole, usando le AI writer come ChatGPT per richiedere una riscrittura del proprio lavoro, giusto per individuare errori di sintassi e renderlo più fluente, ma non si può fare un copia e incolla indiscriminato. Le AI writer hanno un limite evidente: non fanno altro che adattare o copiare scritti o testi esistenti fra quelli forniti dal team di sviluppatori. È perciò ovvio se sia una buona idea realizzare un libro interamente da una AI, visto che l’accusa di plagio è dietro l’angolo. Oltre al fatto che sono privi di uno stile; abilità ancora ad appannaggio dell’essere umano.

E’ notizia recentissima che il professore della Furman University negli Stati Uniti, ha reso noto di avere beccato uno studente, reo di avergli presentato un compito redatto dall’intelligenza artificiale. E la notizia ha fatto eco anche da altri professori, che hanno mostrato i lavori dei loro studenti presi con le mani in tasca. Come hanno fatto a scoprirlo? Dai, fate attenzione! Alla fine del capitolo ve lo scritto! NON HANNO STILE!!! Sono anonimi. Persino quando per un esperimento ho chiesto a ChatGpt di crearmi una storia nello stile di Edgar Allan Poe, è stato bravo, ma non eccelso. Insomma, si vedeva che era taroccato.

Poi per i professori è pure facile prenderli in flagrante: basterà chiedere agli studenti di sviluppare a parole il tema affrontato nello scritto. Se non sanno cosa rispondere o si aggrappano sugli specchi dell’immaginazione basterà ricordarsi che “quando hai escluso l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, è la verità”. Il problema nello scritto, così come per le illustrazioni e fra poco nei filmati video (perché lo stanno sviluppando e molto presto sarà a disposizione di tutti) è la difficoltà nel dimostrare che quella non è farina del mio sacco, della mia arte nuda e cruda. Se una persona sa scrivere, diventa pressoché impossibile scoprire l’aiutino. Nell’illustrazione se una persona diventa nota per i suoi lavori e poi deve autografarli con uno schizzo e non va oltre ad uno scarabocchio infantile, scatteranno i segnali d’allarme… Anzi, suonerà l’allarme con la voce di Mother a ricordarci che l’autodistruzione è prossima ad avverarsi.

Da queste premesse la guerra legale per i diritti d’autore è appena agli inizi. Anche perché mister Del Toro ha sbagliato quando affermare che “…L’IA può interpolare delle informazioni, ma non può disegnare. Non riesce a catturare l’espressione di un volto umano“. Probabilmente non ha visto certi lavori su Midjourney. Persino io sono riuscito ad estrapolare alcune emozioni dai personaggi da me generati: emozioni che partono dalla gioia alla rabbia o lo stupore. In questo caso penso che non sappia ciò di cui parla. Non che sia sbagliato, ma per questo specifico caso è facile indicargli l’errore.

Dunque, a mio modesto parere, ChatGpt va usata con parsimonia ed intelligenza. Fare un copia incolla integrale è non sono svilente, ma pericoloso. Se l’autore originale scopre che gli hai rubato interi capitoli di un suo scritto, sono cazzi amari. Per il disegno beh… lo dirò chiaramente: ho qualche perplessità su alcune mie creazioni. Cioè, sono sì molto belle, ma ho la vaga sensazione di averle già viste da qualche parte. Un dejà vu rischioso se dovessi pubblicarle senza accertarmi che non sia stato arraffato da una foto o un disegno di un altro artista. Che fare? Per ora le conservo e forse le stamperò per incorniciarle in casa mia visto quanto sono belle, riservandomi il tempo necessario per capirne la paternità. Guardate, c’è poco da scherzare. Se ad un manager di una grande azienda come può esserlo la Disney, si sveglia per il verso sbagliato, questo fa terra bruciata di tutto e tutti.

La strada dunque è tracciata ma è al momento molto incidentata e piena di buche e trappole. Penso che nei prossimi mesi o anni, si apriranno dei contenziosi e da esse si svilupperanno regole e leggi ad hoc per la tutela del diritto d’autore anche a fronte del lavoro personale (anche se sorprendentemente noi italiani nel lontano 1941 abbiamo creato una delle migliori leggi a tutela del diritto d’autore esistenti al mondo, consultabile alla legge n. 633 del 22 aprile 1941, cioè in pieno fascismo). Se poi da uno spunto sia narrativo che illustrato, apportiamo delle modifiche, chi mai può insinuare che quello non sia un nostro lavoro? Ogni immagine caricata su questo articolo è stata elaborato, scelto ed infine modificato partendo da questo mio spunto: l‘intelligenza artificiale si reca in un tribunale umano per far valere il suo diritto alla proprietà intellettuale dei suoi lavori. Le prime due immagini sono perciò “assemblate” seguendo i miei gusti personali. Non è dunque arte? Certo, spetta a voi indicarmi se sono arte e se effettivamente la mia idea è giunta a destinazione e non è certo un caso se vi ho inserito il mio nome nelle illustrazioni… Vi do’ una dritta: l’arte è comunicazione. Se vi foste mai chiesti, che cos’è l’arte?, riducendolo alla sua essenza, arrivereste a questa conclusione. L’arte è tale se riesce a comunicarvi qualcosa. Potete detestarla o amarla. Ad ogni modo vi ha lasciato emotivamente qualcosa che voi ritenete utile. Se al contrario, un libro non vi ha rapito, vi siete addormentati durante un film, avete osservato di sfuggita una fotografia o un quadro, se un video vi ha annoiato senza trasmettervi qualcosa di concreto e proficuo, quella non è arte e per definizione, è solo ciarpame (tipo certe foto patinate dei cataloghi di moda, tutte anonime, tutte brutte, tutte apatiche. Persino io saprei fare di meglio). Potrei mostrarvi delle sostanziali modifiche a fotografie di altri autori, ricombinate per generare qualcosa di nuovo ma del resto nel campo della fotografia, il fotoritocco esiste sin dalla sua nascita. Non è un’oscenità questa affermazione ma una marcata constatazione se si conoscesse la storia della fotografia.

È dall’estate del 2022 che si parla animatamente di quanto stia impattando l’intelligenza artificiale nel mondo dell’arte in generale e lo scontro si fa sempre più acceso. L’intelligenza artificiale dovrebbe essere usata con sagacia, ma per l’ignorante che vuol farsi passare per saggio, questa nuova frontiera è un insperato lasciapassare per una presunta vita migliore (sarà poi la vita stessa a bastonarli con la malvagità di cui è maestra). Come sempre, spetta a noi scoprirne i limiti. Ma al momento, l’anarchia è libera di agire. E forse questa, non è arte?

28 giorni paranormale: recensione

Ciao a tutti. Per chi mi segue, oltre al mestiere di fotografo, sa bene della mia grande passione per la cultura nerd, di cinema e tv. Infatti mi sono abituato a lavorare guardandomi film e serie tv sul secondo monitor. La monotonia nel ripetere numerose azioni di fotoritocco sono così spezzate dalle azioni che avvengono a pochi centimetri. Il mio approccio rilassante però è alquanto strambo. È pur vero che mi guardo di tutto, ma resto un grande appassionato di fantascienza e di horror. Come per tutti gli amanti di un genere, si diventa particolarmente selettivi ed esigenti una volta avviata la visione di un film. La musica è un eccellente esempio di come diventi ricercata secondo gli stili. Io amo Vasco Rossi. Io amo Ligabue. Io amo i Subsonica. Nessuno dei tre s’incontrano, a meno che non siano persone mentalmente sane. Perciò, da bravo amante del genere horror, mi tengo informato attraverso alcuni gruppi su Facebook; a dirla tutta, mi sono scontrato in modo drastico con alcuni utenti, poiché invitano alla visione o recensiscono film che di horror non hanno una beneamata mazza. Il semplice fatto che ci siano alcune sequenze da thriller non lo trasformano in un horror. Esempio lampante è l’essermi trovato a leggere recensioni horror per film drammatici come PARASITE di Bong Joon-Ho. È vero che sono presenti alcune brevi sequenze molto angoscianti, ma ciò non lo reputa horror. La diatriba è ancora molto accesa, ma penso che a tratti si perda di vista il senso di ogni logica.

Questo preambolo era per partire da una recensione (non ne facevo da tempo) su una nuovissima serie tv targata Netflix, così… così… ma sì, lo dico! Na’ Corazzata POTIEMKIN indicibile. Pensate voi che mi sono fermato solo al terzo episodio, poiché ero difronte ad una cagata di tali livelli stratosferici che non potevo perdere il mio tempo a visionare na’ monnezza. Va bene farsi piacere il macabro, ma santo cielo, farlo bene, no!? Allora, la sinossi dell’intera storia, che vuole farci credere sia vero in forma di documentario, verte su tre distinti medium ed esperti del paranormale che vengono portati in incognito in tre località distinte, infestate dai fantasmi, ovviamente negli States. Isolati, devono restarci 28 giorni, cioè il tempo necessario per confutare o affermare la teoria dei coniugi Warren (la famosa coppia di ricercatori e demonologi statunitensi: qui trovate il link per approfondire l’argomento) del tempo necessario per stabilire un autentico legame con i fantasmi (o qualcosa di simile). Circondati da telecamere e monitorati in remoto, devono capire con chi hanno a che fare.

Detto ciò, sembra la trama di ESP, il film del 2011 e poiché quel film era una vera chicca nel genere mockumentary, poteva anche funzionare. Ed invece affonda molto velocemente nel miserrimo; talmente macchiettistico da costringermi a scrivere una recensione. Il ridicolo si prefigge sin da come è impostata l’intera serie tv. Invece di dare risalto alle loro vicende, musica assordante e continuamente misteriosa, nascondono rumori e situazioni per generare suspense, creando però un involontario distacco dai personaggi, al punto che non si capisce più cosa sia vero e cosa musicalmente artificioso. Passi nelle scale. Parole portate dal vento. È tutto tenuto nascosto da continue musiche assordanti. Oltretutto, come per il medesimo problema di alcuni canali d’intrattenimento su YT italiani, riguardanti il paranormale, non fanno in tempo ad arrivare che i fantasmi li attaccano, li cercano, vogliono il loro aiuto, fanno muovere le ante nelle stanze, accendere le luci, camminare avanti e indietro… Eeeeeeeeeeeeeeee, ma datevi una calmata! Siete morti! Che cazzo avete da fare tutta sta cagnara?

Io ho realmente abitato con un fantasma in via Cenisio 40 a Milano nei primissimi anni del millennio. Ne ho già parlato in precedenti post e posso dire per esperienza che, oltre alla manifestazione fisica del letto che si abbassava in piena notte senza alcun motivo, tutto ciò che capita a questi ricercati dell’occulto, non mi è mai successo. Se abitassi in simili case, mi trasferirei subito o la farei abbattere. In 28 Giorni Paranormali, non c’è neppure il tempo di conoscere i personaggi che sono già dentro il mondo dell’invisibile. Ridicolo.

Ma il tocco di grazia che mi ha fatto smettere immediatamente di seguirne le vicissitudini, è stato non aver nascosto il sorriso abbozzato in sede di montaggio, probabilmente dopo una grossolana risata, di uno dei ghost riders. In seguito, la battuta all’uscita da un nascondiglio, di uno dei medium presso un’altra casa.: quel “io esco per ultimo” quando dietro di te NON c’è più nessuno perché tutti gli altri ti hanno già preceduto, mi ha fatto così inorridire per la sua stupidità da premere sullo stop e giudicarlo con un pollice verso.

Pensare che avevo appena terminato giorni prima di godermi della nuova opera fi Mike Flanagan col suo toccante horror The Midnight Club o per quel capolavoro, mai aggettivo è più azzeccato per l’incredibile cartone animato psichedelico The Midnight Gospel di Pendleton e Trussell. A quanto pare porta fortuna accostare il titolo alla parola “Midnight”. Due sublimi opere, molto diverse, pompose, filosofiche, sofferte ma affascinanti pur nel loro vagabondare fra gli infiniti specchi dell’insondabile. Ecco, ciò che 28 Giorni Paranormali non sarà mai: filosofico, didattico, psicologico, elettrizzante.

Vagabondando per il web, la serie è stata massacrata sia dal pubblico che dalla critica. Giudizi così devastanti da superare anche quelle per l’ultimo cinematics, quel Thor: Love and Thunder che ha inorridito gli spettatori. A me è quasi piaciuto. Certo, vedermi Zeus che si muove come una checca o che il villain sia appena abbozzato e che tutto vada in satira grottesca, non lo rende un film geniale. Se la WB ha gettato al vento 90 milioni di dollari per Catwoman, dopo averlo visionato, giudicandolo così inguardabile da averlo riposto in cassaforte finché un asteroide non ci colpisca… se c’è chi ha avuto l’arguzia di capire quando fermarsi, non si comprende il motivo di avere speso soldi per una serie tv così abominevole. Visto il flop e le recensioni sotto le scarpe, la cancellazione è doverosa. Gli spettri possono perciò dormire sonni tranquilli che non verranno molestati da questi cialtroni.

Eurovision2022 + Love, Death & Robots

Ricordate quando qualche anno fa scrissi un post, seguito da altri sullo stesso tema, in cui accennavo all’esagerata esposizione nei programmi televisivi e cinematografici, di personaggi omosessuali, transessuali, caricaturali e via discorrendo? Fu un successo inaspettato poiché semplicemente davo vita nelle parole ad un sentimento generale in chi storceva il naso ad un evidente eccesso. Il mio era un pensiero critico che citava esempi lampanti di storture narrative, pur di inserirvi personaggi che nulla aggiungevano alla trama della fiction, ad altri costruiti con fine sensibilità.

EUROVISION 2022

Dopo la parziale visione all’Eurovision nell’odierna edizione italiana di Torino, mi sono detto che era decisamente meglio guardare o fare altro che perdere il mio tempo ad osservare lo scimiottamento di personaggi lesbo e che usavano il pretesto musicale solo per attirare l’attenzione come farebbe qualsiasi reginetta di un qualsiasi concorso di una qualsiasi città. Uno squallore regalatoci con le perle indigeste di un Malgioglio in vena di eccitazione sessuale così spudorata da darmi il volta stomaco. Zero analisi musicale. Zero critiche sugli aspetti artistici ma solo tanto desiderio di mettersi in mostra in una delle più orribili pagliacciate mai viste. Se poi diamo retta a certi giornalai della domenica che hanno “osannato” (ma come fai? Ma come acciderbolina fai?) quel tragico vuoto esistenziale che è Achille Lauro, con un brano cantato malissimo e senza contenuti (riascoltatelo e poi ponetelo affianco ad altri… che ne so io… ad i testi di Ligabue, di Vasco, dei Subsonica, i Tiromancino o altri, e ditemi se non ho ragione) ma solo in una provocazione fine a sé stessa. Per l’appunto, il vuoto.

Si doveva parlare di musica. MUSICA! E non doveva essere una parata a chi l’aveva più lunga. Uno squallore indicibile che dovrebbe porre i dirigenti ad un’analisi approfondita su cosa si voglia puntare. All’arte della sua espressione in musica o a fare i fighetti infischiandosene di testi e significati.

Una provocazione: si è parlato del bacio sulla guancia fra il presentatore nostrano Cattelan e il cantante israeliano Ben David. Sappiamo che la sua squalifica nulla aveva a che fare con questo gesto ed è stata ampiamente smentita. Ma sarò vecchio, però non avrei gradito un bacio o un’effusione da parte di un altro maschio se non richiesto. Vediamo di capirci. Se io bacio una donna o tocco una donna, non necessariamente nelle parti intime, e questa non pare gradirlo, posso essere incriminato per violenza sessuale. Una stortura che andrebbe rivista. Ma se lo fa un uomo ad un altro uomo, per non farsi passare da “omofobo” o “vecchio”, bisogna starsene zitti? Cattelan ha sbagliato, personalmente parlando, a non allontanarlo. Poco importano i fischi dei peones perché esistono limiti che se non richiesti, non vanno intrapresi.

LOVE, DEATH & ROBOTS

Ma il reale motivo di questo ritorno è stato un articolo sulla serie tv animata, targata Netflix, che citava, testuali parole “Il futuro di Love, Death & Robots continua a essere tremendamente eterosessuale.” Sic! Quando lo trovai citato su una pagina su FB dedicata agli amanti della fantascienza, restai basito. Pensavo ad una bufala. No no! C’è chi la concepita questa genialata. Una tristezza infinita a leggere una simile cosa e che costituisce la volontà di intromettere personaggi e sentimenti che non hanno da aggiungere nulla alle vicende narrate. Che poi, gli autori di questo articolo, citando Star Trek Discovery, fanno notare quanto vi siano state due relazioni omosessuali, confondendo pietosamente chi la spunta fra le due. Il rapporto fra Stamets e il dottor Culber è un rapporto difficile, a volte conflittuale ma vero, concreto. Può piacere o meno ma è sincero. Molto, molto, ma molto irritante e meno concreto è il rapporto non-binario (non sanno più che nomignoli appioppare a chi ha seri problemi identitari) fra Gray e Adira. Spesso i loro discorsi sono vacui, inutili e si affaticano ad essere simpatici quando al contrario, sono proprio i fans di Star Trek a bocciarli, non gradendoli (chi aveva scritto quel provocatorio articolo doveva fare meglio i compitini). Proprio perché infilati a forza nella struttura narrativa già ben consolidata in fase di scrittura avanzata, non funzionano. Non sono simpatici e quando si assentano, è un beneficio alla trama (al ché non la rende di valore).

Ora, che si arrivi a scrivere che la serie Love, Death & Robots sia troppo eterosessuale ha veramente dato fastidio a quasi tutti. La serie segue con ironia o nella morale del suo messaggio, un preciso compito pedagogico. Messaggi universali e che non fanno alcuna distinzione di religione, massa o sessualità. Eppure c’è chi non lo vede al punto da gettarla in caciara. I commenti su FB si sprecano e la maggior parte condannano apertamente contro questo tipo di critica vacua e insincera. Se io spendo i miei risparmi per vedere un certo prodotto, voglio sapere che cosa vado a vedere? Si e no! Esiste anche il piacere della scoperta. Perché posso sempre spegnere o valutare negativamente quel prodotto. Ma vogliamo arrivare ad etichettare serie tv e film con dei simboli per indicare la presenza di personaggi gay? Io spero di no, ma visto che Netflix pare ampiamente concentrata sull’inclusione a priori dei lgtbgrtscksxyzegirogirotondo, si sta prestando involontariamente ad un sentimento contro producente per chi lotta seriamente per i pari diritti. Le persone sono stanche di questa “inclusione” forzata. Basterebbe leggere i commenti, molte volte serie e ben articolate.

Che fare? A mio parere eliminare cliché e banalismi da checche, ma attraverso un’inclusione normale e mai forzata. Di episodi molto positivi se ne contano, altrettanto quanti negativi. Non è necessario forzare la mano. Se in una storia, non è necessaria una coppia gay, basta non inserirla. Se è utile alla trama, la si include attraverso uno studio dei personaggi. Non si gettano nella mischia per fare moda. Ci manca solo che diano del gay anche a Godzilla e King Kong e al ridicolo siamo già sistemati. Ditemi che ne pensate. Un saluto.

MARS, recensione

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Ciao a tutti. Ho deciso di fare una breve recensione alla serie tv MARS, targata Netflix per il National Geographic. La peculiarità di questa serie è il mix finzione/documentario su come si potrebbe svolgere la vita su Marte, le sue problematiche sia sulla vita in un pianeta ostile e quanto emerge sulla Terra. Nonché la connessione fra quanto avviene da noi e ciò che accadrebbe lassù con interviste ad esperti, scienziati, astronauti e chiunque ci stia sbattendo la testa per risolverne gli astiosi quesiti “vale la pena rischiare la vita su Marte?”; “quanti soldi saranno spesi?”; “come permettere una vita quanto meno decente stando lontani da casa?” eccetera eccetera. Continua a leggere MARS, recensione

Gay in tv: non si sta esagerando? parte seconda

lesbiche
Mesi fa postai un mio pensiero riguardante l’omosessualità nei film e soprattutto nelle serie tv. Per chi mi conosce bene, sa che non solo ho amici omosessuali ma a parte le checche, di loro, non me ne frega nulla (sì, io detesto le checche). Badate bene che a me degli omosessuali non m’importa. Ne conosco molti per motivi lavorativi e sono persone molto valide. Ma le checche no… Scusatemi, ma loro non li sopporto. A tutto c’è un limite! Anzi, su certe cose sono convinto che non bisogna mai, in alcun caso, scherzarci sopra perché si gioca con i sentimenti delle persone. Eppure la mia riflessione in “Gay in tv: non si sta esagerando?” riguardava per l’appunto l’enfasi, a volte esagitata e inopportuna, nel voler mettere a tutti i costi aspetti omosessuali in ciascun prodotto confezionato.

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After Life, recensione

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Bene, ora che la legge sul copyright è passato ne vedremo delle belle (in senso metaforico, ovvio, perché nella realtà soggettiva sarà una censura stile gestapo – non subito, ma pian pianino inizierà a spezzare ogni velleità di libertà), a cui dovrò per motivi sia professionali che ludici, informarmi in modo più ragionato. Ma non è per questo che apro il mio post ma bensì alla recensione di una miniserie tv britannica, uscita su Netflix dal titolo AFTER LIFE, Continua a leggere After Life, recensione

The dirt Motley Crue, recensione

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Partiamo subito subitissimo da un dato confortante; finalmente Netflix ha realizzato un bel film. Se con le serie tv nulla è da eccepire, con i film proprio non ci siamo, ma in questo caso, il film autobiografico sulla band glam metal per eccellenza è così folle, assolutamente indecente e a tratti esilarante da mettere in secondo piano il tanto decantato Bohemian Rapsody sui Queen. Quest’ultimo, che ho recensito negativamente. Pur essendo un bel film, i personaggi sono mostrati alla stregua dei supereroi, lasciando da parte il loro talento per dare spazio al solo Freedy. Un vero peccato. Continua a leggere The dirt Motley Crue, recensione

Recensione Girlboss

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Di solito le serie targate Netflix sono sempre superiori alle aspettative e, a parte spiacevoli eccezioni come i supereroi Iron Fist e Luke Cage, giustamente cancellati dopo la seconda stagione, hanno soddisfatto il palato di quasi tutti. Quando giorni fa mi sono imbattuto in Girlboss, per’altro pure del 2017, ho iniziato a vederlo, sì, lo ammetto, più per la bellezza dell’inteprete principale, una scoppiettante Britt Robertson nelle vesti di Sophia che per la serie in sé. Continua a leggere Recensione Girlboss

Russian Doll, recensione

russian-dollNetflix ha cannibalizzato il mainstream puntuando sulla qualità e sul coraggio. A parte i film targati Netflix che, a parte rare eccezioni, sono dimenticabili, le serie tv invece restano il fiore all’occhiello della rete californiana. Alcune veramente eccezionali, sono ogni punto di vista, sia tematico che emotivo. Ad entrare nel gota delle produzione da vedere ASSOLUTAMENTE, fa capolino la mini serie in soli 8 episodi di RUSSIAN DOLL, prodotta e interpretata da Natasha Lyonne, conosciuta grazie alla serie tv carceraria Orange is the new black.

La trama ricalca il capolavoro del 1993, diretto da Harold Ramis e interpretato da un magnifico Bill Murray, RICOMINCIO DA CAPO. In quel caso la trama raccontava del meteorologo Phil, che va controvoglia a fare un reportage sulla tradizione del Giorno della Marmotta (che esiste realmente). In questo caso ogni giorno, alle 6 del mattino in punto si svegliava rivivendo la solita giornata, giorno dopo giorno, morte dopo morte, nel disperato tentativo di porre termine a quel circolo vizioso.

In RUSSIAN DOLL, la protagonista non si trova intrappolata in un loop temporale per cause misteriose, ma bensì perché schiatta proprio, ancora ed ancora ed ancora in un circolo vizioso, costringendola a cercare una soluzione e risposte a quella follia.

Le rassomiglianze ci sono, ma i due prodotti sono assai diversi, però in entrambi i casi, la cura nei dettagli, nella sceneggiatura e negli attori è altissima. In primo luogo va menzionata la splendida interpretazione, volutamente sopra le righe della Lyonne, nella parte di Natasha. Un ruolo straordinariamente ricco di humor e di una forza incontrollabile che ammalia lo spettatore. In soli 8 episodi riesce in egual misura a dare respiro ad un personaggio capace di divorare con la sua presenza chiunque altro le si presenti. Non è solo la star, ma la vera stella che brilla in questa storia dark.

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Mentre il titolo strizza l’occhiolino alle matrioske, che smontandole una ad una è ripetitiva in egual misura, fuorché nelle dimensioni, la storia fa la sua parte, lasciandoci con molte domande su come sia potuto accadere e ogni inquadratura è un tranello in un labirinto senza via d’uscita. Il senzatetto, il gatto, il palazzo… tutti loro possono esserne causa o semplici spettatori di un universo impazzito che si è spezzettato, forse per rendere la vita della protagonista meno dissoluta e disperata dietro quell’energia esteriore, e farle incontrare la pace nell’anima gemella.

Il finale è tutto da vedere perché emozionante, convogliatrice di energia e spiazzante, dove gli universi s’incrociano, anche solo di sfuggita a renderci la vita meno amorale di quello che ci affligge. Come per un’altra serie tv cult MY NAME IS EARL, anche in questo caso il karma s’intromette e fa prendere coscienza dell’inutilità di circondarsi di una vita di azioni dannose per sé stessi e gli altri, trattenute come fossero oro colato e pronte ad esplodere in modo fragoroso.

Spero sinceramente che non ci sia una seconda stagione, perché la prima ha già fatto il botto e non riuscirei a comprenderne il seguito. Così come hanno fatto saggiamente con DAREDEVIL, terminata alla fine della terza stagione nel suo massimo splendore, RUSSIAN DOLL dovrebbe restare così, eterea, immortale come la sua protagonista, così forte e allo stesso tempo fragile e disperata.

Tutto si rincorre in un circolo senza fine, neppure quando i vari universi s’incrociano… se mai succede.

In poche parole? Dieci stelle su dieci. Un vera chicca. Da vedere immediatamente.